Inaugurazione 10 maggio 2019 - ore 19.30
Per Ugo Marano, 9 febbraio 1943 e più oltre
Oh, non è ancora la fine
Lo sguardo sulle foto dell’archivio di Enrico Salzano (parte minima del cassetto della sua storia artistico-fotografica), fanno rimbalzare echi di memoria e riavvoltolano la pellicola di sogno+realtà di chi ha avuto la fortuna di intercettare la figura ieratica, avvolgente, calorosa di Ugo Marano. Echi e frame di immagini compongono un mosaico –materia di cui era “maestro” Ugo- e un profilo dell’uomo, dell’artista geniale, minimale, riflessivo, aperto alle persone, al pubblico, generoso affabulatore, manipolatore di argille e di geometriche o di ondulate figure. Ugo errante tra le sedie di legno, di ceramica, sotto il tavolo-uomo di ferro sagomato e vetro, sotto le ciotole da pellegrino medioevale, con semi e grani di riso, pronto al battito di ciglia del click per essere immortalato. Ecco lo ritroviamo così e ne risentiamo il rimbombo caldo della voce, tra la nuvola argentata della barba da amanuense e saggio –quale era tra l’altro- con la sua statuaria fisicità che diventava abbraccio, scambio di energia, di spirito. Foto come cronaca, come fermo-immagine, come granelli di clessidra conservati come tesoro, come minuscoli, fossili, raggi di sole (nonostante il bianco e nero) e foto come film, come momenti di vita condivisi grazie alle sfocature di un movimento improvviso, un gesto. Echi, dicevamo: “Cerchiamo di vedere Ugo questa tua città dell’amicizia delle erbe questa città verde che cresce con i venti, con il tempo ed il sole che s’erbisce nei suoi dolci rami nelle sue essenze nei suoi castelli nelle sue sicurezze”, scriveva Omar Dalmjrò, ovvero l’amico Marco Amendolara. Era il 7 maggio 1985 in La città di passaggio-La figura (di Ugo) distesa del verde, serbata in un piccolo librino della Fabbrica Felice. Poi venne Il signor Pigreco e il primo germe di quella performance delle sedie di legno 1 e poi 2 e poi 3, in ceramica: un tavolo ovale con quei piccoli troni all’apparenza silenti, ma che invece intonavano un coro e “la storia di un uomo che non progetta ma che si costruisce direttamente l’interno sul suo esterno”; parole di Ugo, novembre 1984. Ci piace ricordarlo così: scripta manent, come le sue opere conservate e disperse, semi gettati in aria; da qualche parte germoglieranno come i granuli delle sue parole: “Togliere la maschera al ventesimo secolo. L’arte è come un temporale/ è come un vulcano/ è come una mareggiata/ l’arte non è avanti e non è indietro/ appartiene solo al presente/ è come un forte vento che si congiunge con l’aria/ abita nei corpi degli uomini del sud che bevono aria alle cinque della sera.” (7 maggio 1985) . Lo rivediamo, mentre apre la porta dell’altrove, del suo mondo ancora vivo, esistente e ci direbbe, ci dice ancora: “Anche la morte ch’è vita rivoluzionaria/ è solo silenzio di violini d’aria o boati di trombe maestose.” E concluderebbe l’ennesima performance fotografando l’amico Enrico, specchiandosi in noi, e facendosi fotografare con i capelli come onde marine, cantando ancora, come i suoi grandi vasi alla brezza “oh non è ancora la fine”, del libro, della vita.
Marcello Napoli, giornalista, collaboratore de Il Mattino
