Dedicato ad Ugo 

1988. Capriglia. Inverno. Un pallido sole illumina un cortile diruto di un vecchio palazzo gentilizio, si posa sui muri scrostati, danza sulle foglie sopravvissute degli alberi che abitano questo luogo di fantasmi. Sono passati otto anni, ma il terremoto mostra ancora i suoi segni in questo posto isolato, senza più tempo né spazio, in questa dimora della memoria “resistente” che Ugo Marano ha adibito a laboratorio del suo progetto cosmico dell’universo. E’ il primo flash di ricordi sbiaditi che affiorano dal profondo di fronte al diario visivo di una giornata particolare. Ugo ci chiese di documentare una sua performance, doveva essere parte di un happening, una delle tante operazioni collettive di arte sociale messe in piedi da Enrico Crispolti e dal suo “discepolo” Massimo Bignardi. Non se ne fece niente, ma lui voleva comunque appuntare quell’intervento mai eseguito, trasmettere le sue idee azioni al pubblico, coinvolgere gli spettatori, sollecitarli fino a farli diventare attori, perché, diceva, “l’arte non è morta se c’è comunicazione tra gli uomini”. Ci trascinò, così, in questa esperienza eccezionale, intima; “amichevolmente clandestini”, soli e nello stesso tempo in comunione con Ugo, i nostri sguardi incrociati, l’obiettivo e la telecamera che non più registrano movimenti e parole, bensì si muovono spontaneamente, assecondando i gesti di un improvviso germinare in un cortocircuito emozionale, autori insieme all’autore in un afflato di partecipazione condivisa.

Sono trascorsi ventisette anni da quell’avventura appartata, quattro da quando Ugo ci ha lasciato. Abbiamo ritrovato quelle immagini che avevamo gelosamente custodito e abbiamo deciso, sicuri della sua approvazione, di riproporle con un omaggio minimale e gioioso sulla scia del suo pensiero e della sua esistenza rivolta sempre alla ricerca della piccola felicità. E’ un tributo alla vita e non alla morte, è il Marano autentico che si rivela in prima persona, che ci grida che “tutto è amore”, che “il sole e la luna è l’arte”, che “una macchia oscura” può offuscare lo splendore ma che “l’eclissi” è comunque passeggero, un attimo di terrore, di sbandamento poi la luce torna a risplendere. Eccolo, vestito di blu, il colore dei suoi occhi, un cappellino a punta calzato disinvoltamente sui riccioli che piovono da ogni parte, guardare attraverso i vetri le stanze della dimora dell’infanzia. Pare scrutarci, entrarci dentro, rivolgersi a noi direttamente nel muto invito ad aprire le nostre anime ai ricordi, a toglierci le maschere, a non restare più dietro lo specchio, a riscoprirci per ricostruirci e a vivere il presente “con la follia di Gesù e Francesco”, quella follia, che ripete come un mantra, è amore. Entriamo con lui in punta di piedi in quegli ambienti abbandonati, polverosi, un battuto di cemento ancora in attesa di rivestimento, i soffitti di travi tarlate, le pareti ferite da squarci, gli intonaci spettri cromatici come gli affreschi di Pompei. Il buio è rotto dal chiarore che penetra dalla porta, la soglia tra l’aldilà e l’aldiqua, attraversarla è facile, basta volerlo. Sparpagliate compaiono tra le ombre le sculture dell’alchimista Marano, le sue sedie antropomorfe, “signore sedie” le chiama ed i tavoli graffiti di versi: oggetti di materiali poveri, arcaici, sfidano il mistero della perfezione per dialogare con la terra madre, l’uso quotidiano assurge a sacralità. Aspettano compagni di un convito, stimolano comportamenti, atteggiamenti. Il sacerdote Marano li usa come altari, li adorna di verde, si inginocchia a mo’ di preghiera, si stende faccia al suolo per assorbire l’energia della materia che si fa spirito. “Ora facciamo il finale”, ci esorta, “sì… una buona fine, un finale è buono se è espressione di libertà, se indica un sentiero da percorrere con grazia”. 
Un finale è buono se non c’è finale. Eccoci ancora amichevolmente insieme, con te, con gli altri, a percorrere con grazia i tuoi sentieri in una “partenza” che è, proprio come ci esortavi, ci esorti, “senza fine”.


Corradino Pellecchia-Enzo Rosco

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